Due milioni di milioni. Se vai a leggerlo meglio: “duemila miliardi”. Di che cosa? Di dollari, spesi dal 2010 in poi in spese per l’innovazione.
Infatti, se navighi in uno qualsiasi dei siti di aziende presenti sul web, la parola innovazione è super-gettonata. Pare che ogni realtà legata al mondo del business abbia qualcosa di innovativo.
Ma di che innovazione si tratta se lo stare in azienda, in molti casi, è sempre più complicato e lascia strascichi nella vita privata di moltissime persone?
Nicholas Negroponte, fondatore del MIT Media Lab, ha parlato di “carestia di grandi idee” affermando “che la nostra società si autocelebra sul tema dell’innovazione e intanto si lascia sfuggire la possibilità di risolvere problemi di lungo termine” (dal libro “Innovare davvero” di Alf Rehn: se vuoi acquistarlo, clicca qui).
Qualcuno potrebbe sostenere che l’azienda in cui lavora è priva di idee, ma la verità è che le idee brillanti sono spesso presenti ovunque. Soltanto che il più delle volte ci si limita ad ascoltarne qualcuna durante una riunione per poi lasciare i dipendenti chiusi nella loro quotidianità.
Se aggiungiamo che oggi viene dato molto risalto ai data analyst, in quanto il futuro pare essere della IA (intelligenza artificiale) guidata appunto dai big data, la frittata è fatta. Perché questo in realtà non crea innovazione: al massimo perfeziona ciò che esiste già. Infatti il miglioramento guidato dai dati non dà vita a un cambio di paradigma. Serve dell’altro, vedere ciò che non esiste.
Per comprendere meglio il fenomeno, secondo Alf Rehn, non dobbiamo capire come nascono le idee, all’opposto come muoiono.
Le grandi idee vengono soffocate in modo passivo, spesso nel silenzio, e non nell’ostilità. Sono quei sorrisi di disprezzo dei colleghi più esperti, la miopia di quei manager che ti dicono “no, non se ne parla”, o di quelle persone che commentano “buona idea” per poi lasciarla lì, sepolta, a morire soffocata.
Solo se ritorniamo a premiare la creatività, a capire l’importanza delle relazioni, a permettere alle persone di sbagliare quando stanno percorrendo strade nuove, riusciremo a creare vera innovazione, quella profonda, che può risolvere problemi su scala mondiale. E con il massimo rispetto che gli sviluppatori, altro che telefoni a 4 videocamere definiti innovanti!
Eppure ogni giorno muoiono idee, e noi ne siamo complici. Sì, perché è inevitabile, al di là della nostra volontà, adottare comportamenti di noia, di disinteresse, di rifiuto che influenzano a loro volta il comportamento di altri. Quegli stessi comportamenti che in qualche modo hanno influenzato noi stessi.
Quando si parla di cultura della diversità e dell’inclusività è di questo che bisognerebbe raccontare: di come l’innovazione si nasconda dietro una qualsiasi idea, anche la più strana, nata dal più strano o dal più normale di ognuno di noi.
Non servono a nulla i corsi motivazionali, le grandi vision stampate sui muri di cartongesso delle aziende, e i valori incollati sulle porte a vetri degli open space, se poi è presente una cultura della critica negativa, della noia, del non interesse per le persone.
C’è bisogno, per coltivare l’innovazione, non tanto di idee ma di una cultura favorevole ad esse. Ma attenzione, perché la velocità in cui un’azienda cresce è molto più rapida rispetto a quella con cui una cultura si sviluppa. E lo dico perché il più delle volte, anche quando ho visto imprenditori visionari, innovativi, il loro successo è diventato arroganza, e senza saperlo hanno tarpato le ali a quell’innovazione alla quale potevano dare vita.
Interessarsi alle persone, evitare il giudizio, ascoltare ciò che le proprie risorse hanno da dire, questo serve. E se tutto ciò non significa innovazione almeno si tratta di creare la cultura che la favorirà. Un po’ come dire “se voglio che il mio giardino cresca verde e rigoglioso, prima, devo preparare il terreno.”